Nella bella perché rissosa “Nota del traduttore” a “Il Decamerone di Giovanni Boccaccio” Aldo Busi scrive: “Il tradimento del testo originale (…) è abbastanza raro e sempre plateale, contrassegnato da una surreale invasione di campo (semantico) da parte di anacronismi che spingono verso la porta della ridarella anche sciocca, perché no, nomi, mestieri, tropi, oggetti della vita materiale a cavallo fra il medioevo immaginifico del tempo e il nostro vero e proprio, per ora soltanto confusamente reale.”
Ed è così che per esempio il pavano del Ruzante quando dice “Moa, andè, ch’a’ v’aspeto agno muò’, vî! O pota del cancaro, Dio sa a che muò’ l’anderà… Mo’ pota sì!” diventa nell’italiano di Aldo Busi: “Sì, sì, andate ma io sto qui a aspettarvi, neh, non mi muovo… (solo) O mona lisa d’una potta logora! Chissà Dio come andrà a finire… Ma poi chi se ne frega, per andare andrà!”
Io Ruzante – se non fosse passato dalla traduzione di Aldo Busi – non l’avrei letto né nella sua precedente, di Ruzante stesso, né nella sua seconda, per pugno di Busi, versione originale.
Facile intuire chi sia il vero traditore: chi lascia agli studi specialistici, ovvero in un costoso dimenticatoio, l’opera di uno scrittore che dà vita a un linguaggio alternativo e competitivo a quello con cui si vuole che tutti siano parlati, a una lingua che non appena diventa standard non è più una chiave per uscire liberati da se stessi ma una gabbia nella quale incarognire e dove si può essere sorvegliati al meglio.
Per questo trovo impressionante e propriamente titanica l’impresa ventennale di un vocabolario che contenga una lingua intera al suo interno: il vocabolario del pavano – così come a suo modo l’opera di Aldo Busi può essere intesa come il censimento vivo di una lingua italiana scatenata – è come un’arca che al suo interno traghetta in salvo la storia di tutta l’umanità che, parlandola, l’ha vissuta, scampandola al diluvio di uno linguaggio sterile, geneticamente modificato in laboratorio, che non fa crescere e vivere autonomamente più niente.
I miei grati saluti,
Antonio Coda